DIAPASON Dicembre 2018 / Gennaio 2019


L'inizio della passione di Gesù lo vide nell'orto degli olivi, dove pregò il Padre, se fosse possibile, di risparmiarlo dalle sofferenze che dovevano seguire. Con l'avvicinarsi del Natale e l'ennesima incarcerazione nel nostro pianeta dello spirito del Cristo cosmico, possiamo immaginare che una analoga passione Egli debba ripetere. Conosciamo la risposta che ricevette Gesù: il conforto degli angeli, ma l'attraversamento della prova. Perché - era in effetti la sua preghiera - per compiere la missione sulla terra era necessario soffrire? Non è proprio possibile farlo in un altro modo?
Il Vangelo dà anche a noi l'unica risposta possibile: no! Siamo qui tutti per compiere una missione: l'evoluzione, anche se la grande maggioranza lo ignora. E questa missione richiede il sacrificio. Se analizziamo questa parola: sacrificio, ne possiamo trarre il significato: fare sacro; rendere cioè sacra un'azione. Quando riuscissimo a realizzare ciò, allora gli angeli si avvicinerebbero anche a noi. Non si può evitare quello che ci fa soffrire, ma lo si può vivere in modo differente. In fondo, il vero sacrificio dell'amore del Cristo sarebbe quello di non poter fare niente per noi; così tramite la sua sofferenza Egli ci può aiutare. E continua a farlo.
Però, queste belle parole noi le accogliamo e le condividiamo quando riguardano gli altri. Siamo sempre circondati dal male e dal dolore altrui, ma per accorgercene davvero dobbiamo prima viverlo personalmente. Solo allora le domande che nascevano negli altri assumono il loro vero significato; senza l'esperienza diretta non ci è possibile comprenderle fino in fondo. E le risposte che fino a prima ci sembravano tanto logiche ed esaurienti, spesso perdono la loro presa nella nostra coscienza, e talvolta fanno nascere nuove domande.
Sappiamo che il dolore è il prodotto karmico di cause da noi stessi messe in moto nel passato; ma se lo guardiamo solo da questo punto di vista perdiamo metà della questione: restiamo attaccati al passato, quel passato che ha prodotto il dolore. L'altra metà riguarda il futuro: il futuro così osservato diventa, di conseguenza, un'azione liberatrice, tale da rendere sacra l'attuale sofferenza per promuovere l'evoluzione che ci attende. Senza quell'azione liberatrice resteremmo legati al passato, e mancheremmo la nostra missione. Sarebbe un errore fuggire quell'esperienza, perché ci priverebbe del risultato. Il problema è che il risultato lo coglieremo nel futuro, mentre il presente sente solo la sofferenza. Dare però un significato alla sofferenza ci può aiutare a viverla in maniera diversa; fino quasi a non sentirla più come un peso insopportabile. Possiamo utilizzare queste riflessioni anche per accogliere il Natale con una maggiore consapevolezza; verso noi stessi e verso gli altri.

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